di Domenico Corcione
La nostra vita si svolge in un’epoca febbrile, fatta di scadenze precise e appuntamenti puntuali. Difficilmente, dunque, possiamo immaginare i tempi lenti perché lentamente scanditi dei nostri bisnonni. Le giornate passavano scandite dai rintocchi dei campanili, sul breve periodo, e dall’alternarsi delle stagioni, sul lungo. Un contesto rurale che riguardava tutta l’Europa e che passò indenne persino dalla furia “civilizzatrice” delle rivoluzioni sette/ottocentesche, ma che ha dovuto soccombere con l’introduzione di tempi di produzione industriale veloci e meccanizzati.
Scrisse Edward Gibbon che un inglese del XVIII secolo era più simile a un antico romano che a suo figlio del secolo successivo. Potremmo adottare questo paragone calandolo nella realtà storica e geografica di Afragola, affermando che un afragolese del 1915 trovava più cose in comune con il suo avo del 1015 che con il suo pronipote del 2015. Scandire il tempo significava dominare il tempo, e quindi le vite. Non sorprende che uno dei primi atti delle società civili appena costituite fosse l’erezione di una torre civica con tanto di orologio, in modo da organizzare il tempo secondo usi civili e non più religiosi. Tuttavia, il culto cristiano si era così velocemente e profondamente impossessato del tempo che le tradizioni (alimentari, festive) che da questa scansione scaturirono sopravvissero fino ad arrivare, non tutte e in gran parte modificate, ai nostri giorni.
Qui si dà un elenco abbastanza particolareggiato delle tradizioni agricole afragolesi: parlo di tradizioni rurali perchè la vita cittadina, iniziata di fatto solo dal secondo dopoguerra in poi, non ha prodotto nulla di duraturo e caratteristico. Le fonti sono i testi citati nelle Visite vescovili alle parrocchie afragolesi, gli usi tramandati dalla Chiesa generale in determinate occasioni annuali, i racconti degli ultraottantenni. Tale elencazione non è completa, in quanto è un lavoro ancora tutto da fare e da analizzare, ma può dare un’idea di quello che accadeva ad Afragola in un anno del passato, facciamo il 1827.
- 17 gennaio: celebrazione di Sant’Antonio Abate. Presso l’omonima chiesa in via Guerra, si portavano i rami secchi del Natale appena trascorso e li si bruciavano nel cortile del palazzo Guerra (o in alternativa nei focolari e nelle campagne). Era un segno per gettare via il “vecchio” dell’anno passato (una tradizione trasformata oggi nel gettare via gli oggetti vecchi dalle finestre il 31 dicembre che accade ancora da qualche parte a Napoli). I contadini portavano a benedire gli animali “domestici”: vacche, maiali.
- 2 febbraio: Celebrazione della Candelora.
- 23 aprile: festa di San Giorgio. A partire da una tradizione risalente al Medioevo, ma testimoniata per la prima volta nel Settecento, gli agricoltori e i contadini (due figure diverse) portavano gli armenti presso l’omonima parrocchia per la benedizione di rito. A partire dall’Ottocento, essa riguarda solo i cavalli. Scompare nel secondo dopoguerra del Novecento. In questa occasione, veniva organizzata una sagra.
- 25 aprile: festività di San Marco e inizio delle Rogazioni. Dalla chiesa di San marco all’Olmo partiva una processione con le reliquie di San Marco e giungeva fino al tempio vecchio. Dopo la confessione e la penitenza, si poteva ottenere l’indulgenza girando tre volte intorno al tempio di San Marco in Sylvis. Anche in quest’occasione si teneva una sagra, con prodotti tipici agricoli (polpette di San Marco). Nella stessa data, si apriva la settimana delle Rogazioni: dal 25 aprile al 3 maggio, i sacerdoti benedivano i campi per ottenere un buon raccolto. Tradizione scomparsa nel Novecento
Lunedi in Albis (variabile, comunque non oltre il 24 aprile): gli afragolesi andavano in pellegrinaggio al tempio di Santa Maria dell’Arcora, detta Putechella per la presenza di un forno e di piccole botteghe nell’area. Sentita la messa, proseguivano a piedi verso il santuario della Madonna dell’Arco. Tradizione voleva che alla Putechella ci si fermasse per un piccolo ristoro, prima di partire o a volte al ritorno dal santuario. Solo a partire dall’ ottocento si è introdotto l’uso delle chiette con rappresentazioni religiose e un premio in denaro. Le chiette più famose erano quelle di Piazza dell’Arco, Piazza San Giorgio, rione Grottese, Capodivia (attuale piazza Ciampa). Dagli anni Settanta in poi, scompare la
- motivazione religiosa, assieme al pellegrinaggio, complice il passaggio della Putechella a Casalnuovo avvenuto 40 anni e il Concilio Vaticano II che fece cadere in disuso molte feste religiose.
- Ascensione (variabile, comunque non oltre i primi di giugno): fino agli anni Settanta, trattori e fedeli si portavano la domenica di 40 giorni dopo la Pasqua alla cappella di Santa Maria la Nova, detta Scafatella, che in passato serviva come luogo religioso, deposito e rifugio dei contadini a lavoro nei campi. Li il parroco di Santa Maria d’Ajello celebrava la messa, e davanti al tempio fin dalla sera precedente i “cuozzi” cucinavano minestroni di grano o di altre verdure. Le ragazza si lavavano il viso con acqua in cui galleggiavano dalla sera prima petali di rosa, come segno benaugurante per la bella stagione che stava per iniziare. Dopo la scoperta dell’affresco cinquecentesco nel 1968, la processione vide anche il trasporto di detto affresco dalla parrocchiale di Santa Maria alla cappella, e la sua custodia da parte dei contadini. Oggi qualcosa della festa è rimasto, con le bancarelle multicolore (e squallide a parere di chi scrive) che ogni anno prendono posto davanti alla Scafatella.
- Santa Maria Assunta: festività che già esisteva ben prima della proclamazione del dogma nel 1950. Gli agricoltori lasciavano le loro case private in città e si recavano alle loro masserie, se non l’avevano già fatto a luglio per i lavori della canapa. Se la masseria era grande, tipo la masseria Lupara ancora esistente, essa diveniva domicilio estivo della famiglia padronale. Era uso il 15 agosto cenare con zuppa di granoturco o in alternativa con un cenone come quello natalizio
- 29 settembre: San Michele. Una piccola sagra, già non più esistente nell’Ottocento, si teneva davanti alla chiesa omonima, che sorgeva molto di indietro di adesso. Si assaggiava il vino dell’anno precedente
- San Martino: iniziava il periodo della stagione morta. Si assaggiava il vino novello, e si raccoglievano le messi. Iniziava la raccolta delle fascine per i focolari per affrontare l’inverno
- Natale: come adesso, la famiglia si riuniva (intendiamo quella patriarcale: nonni, figli, cugini e nipoti e figli dei nipoti) per il cenone, che comprendeva carne (cibo raro sulle tavole della massima parte degli afragolesi fino al boom economico, si mangiava solo di domenica in passato) pesce di Napoli, vino dell’anno precedente, noci del beneventano.
di Domenico Corcione