rassegna stampa
Dalle origini francescane di Greccio ai personaggi in terracotta raffiguranti Renzi e Benitez. Il presepe ha attraversato i secoli rinnovandosi ma anche svuotandosi del suo significato primario. Ecco un breve viaggio nella storia di pastori, natività e business commerciali
Il presepe: le origini
Il presepe non nasce a Napoli. In realtà, a Napoli c’arriva portato dall’ordine francescano, dopo che San Francesco d’Assisi nel 1223 riprodusse la prima “natività”. Perché è questo, tirate le somme, il presepe: la rappresentazione della nascita di Gesù, la condizione di assoluta povertà in cui il Salvatore è nato, così come viene descritto dai Vangeli.
Ma la tradizione del presepe non è arrivata solo a Napoli: qui, certo, ha trovato terreno fertile per resistere e svilupparsi, e nel corso del tempo è riuscita a diffondersi praticamente ovunque nel mondo, radicandosi anche nella cultura spagnola e, più in particolare, nella cultura catalana.
Quindi non è facile dire chi abbia cominciato per primo, quale tradizione sia la più antica; quella napoletana è una delle tante, e la storia ci insegna che nel corso dei secoli, da quel 1223 in cui San Francesco ebbe l’idea di ricostruire – fisicamente – la natalità, il presepe è diventato qualcosa di più. Da espressione puramente religiosa a forma d’arte complessa, studiata e approfondita nelle botteghe di maestri laici di cui ancora oggi è possibile ammirare l’opera (in alcune chiese di Napoli, per esempio, vengono esposti ancora oggi i presepi realizzati dal Belverte, dal Rossellino e dal Marigliano). Fino a incarnare un elemento di quotidianità.
Ma cos’è che differenzia le varie tradizioni – perché il presepe napoletano, per esempio, è così famoso nel mondo e ha avuto così “fortuna”? Rispetto alle altre tradizioni, quella napoletana vuole i pastori in terracotta con abiti intessuti e cuciti a parte, distinti quindi dalla figura dei personaggi. Cosa che invece non accade nella tradizione bolognese, che vuole i personaggi come un unico blocco.
Il presepe napoletano
Da Napoli il presepe si è diffuso in tutto il resto del mondo, grazie soprattutto alla dominazione borbonica che ha fatto sue alcune delle tradizioni del capoluogo partenopeo, esportandole non solo in Spagna ma pure nel resto dei suoi domini.
Del presepe napoletano ci sono tantissime testimonianze; la prima, una delle più accreditate, risale al 1025, ancora prima che San Francesco d’Assisi realizzasse la prima natività.
Il presepe napoletano, contrariamente agli altri “tipi” di presepi, è forte di una scuola artigianale importante, che è prolificata nel corso dei secoli soprattutto perché sostenuta, o comunque bene accettata, dai Borbone.
I personaggi del presepe napoletano, come abbiamo già detto, si contraddistinguono per la cura dei dettagli, per il fatto che gli abiti e gli altri accessori siano distinti e realizzati a parte rispetto il corpo principale, fatto comunque di terracotta. Insomma, il presepe napoletano è una vera e propria forma d’arte, che nel corso del tempo ha rielaborato la natalità descritta nei Vangeli per farne qualcosa di più vicino alla città, aggiungendo (o eliminando o modificando) alcuni personaggi.
È la tradizione partenopea, infatti, che vuole Benino o Benito, che è il pastore che dorme, quello che, praticamente, riceve in sogno l’annunciazione della nascita di Gesù (secondo la credenza popolare, risvegliarlo equivarrebbe a far sparire il presepe perché è lui quello che lo rende vero, con i suoi sogni). Ma nel presepe napoletano ci sono pure il Vinaio e Cicci Bacco, che rappresentano un’evoluzione della religione cristiana: già nel presepe, i maestri artigiani napoletani inseriscono elementi della Pasqua, della morte di Gesù, come appunto il vino venduto dal Vinaio e il pane.
Poi abbiamo il pescatore, i due compari, Zi’ Vicenzo e zi’ Pascale, rispettivamente le personificazioni del Carnevale e della Morte, di cui si trovano oggi rappresentazioni anche al Cimitero delle Fontanelle di Napoli. Quindi c’è il monaco, punto di contatto tra il sacro e il profano; la zingara, ennesimo elemento pagano che entra a far parte della natività cristiana; Stefania, vergine come la Madonna; la meretrice, in contrapposizione a sua volta proprio alla madre del salvatore; i re magi e i venditori, che rappresentano ciascuno i vari mesi dell’anno.
In particolare: macellaio e salumiere rappresentano gennaio, venditore di ricotta febbraio; marzo, invece, è rappresentato dal pollivendolo. Ad aprile corrisponde il venditore di uova, maggio è la coppia di sposi, a giugno il panettiere; quindi il venditore di pomodori per luglio, quello di cocomeri per agosto, e quello di fichi per settembre. A ottobre il vinaio o il cacciatore, a novembre il venditore di castagne e a dicembre il pescatore – dal pesce, simbolo della cristianità per eccellenza.
Quindi anche i luoghi nel presepe napoletano assumono un’importanza fondamentale: le botteghe dei “venditori” sono infatti l’ennesima rappresentazione dei mesi e, quindi, delle stagioni. Ma pure il ponte, il forno, la chiesa (già presente nella rappresentazione della natalità a fine ‘700), l’osteria, il fiume e il pozzo sono simboli importanti, pregni di significato nella tradizione napoletana.
Che cos’è diventato oggi il presepe
Nel corso del tempo la tradizione napoletana ha continuato ad arricchirsi di nuovi elementi e negli ultimi anni, a cominciare dalla seconda metà del ‘900, nel presepe sono stati aggiunti nuovi personaggi, ispirati liberamente alla cronaca e all’attualità, come Totò o Massimo Troisi o comunque tutti quei personaggi che in qualche modo sono diventati importanti per la città.
Insomma, il presepe – e la tradizione del presepe – sono diventati due modi quasi inconsci per riconoscere l’importanza e il valore di coloro che hanno aiutato Napoli. Diventare un personaggio del presepe napoletano è diventato così una sorta di investitura civile.
I maestri artigianali della via del presepe (che non comprende la sola San Gregorio Armeno, ma che si estende fino a San Biagio dei Librai) hanno però finito per fare della tradizione napoletana anche uno strumento di satira e di retorica, rappresentando magari anche i personaggi più controversi e criticati dalla società. E così quelle che fino a qualche anno prima erano rappresentazioni dettate dal rispetto o dallo sfottò sono diventate occasioni commerciali e di visibilità.
Da tradizione religiosa, quella del presepe ha finito per diventare totalmente laica, e oggi più che l’arte in sé rischia di essere dimenticato il racconto popolare, quello che giustifica e vuole i personaggi di cui abbiamo parlato; quello che prescrive il giusto modo di disporre i pastori, e che vuole la costruzione ex novo, ogni anno, della natalità.
L’altra faccia del presepe: San Gregorio Armeno
Oggi allora che cos’è diventato il presepe? In quanti, ancora, si “ostinano” – perché sì, la passione e l’attenzione per la cultura popolare sono diventati questo: ostinazione – a seguire gli “antichi precetti”, il racconto, la storia, la spiegazione di una tradizione ricca di secoli e secoli di storia?
Del presepe napoletano quello che viene più pubblicizzato è il suo aspetto più superficiale e più consumistico: la statuina del politico o del calciatore di turno, la rappresentazione a grandezza naturale dei personaggi dello spettacolo, e così via. Ma la passione per il presepe è un’altra cosa. Che con il consumismo ha davvero poco a che fare. Prendete Eduardo De Filippo e il suo Natale in Casa Cupiello: era un dovere fare il presepe una volta, quasi una missione; e c’era piacere, certo, nel seguirla, oppure no.
Nella contrapposizione continua tra il padre di famiglia, Luca Cupiello, interpretato proprio da De Filippo, e suo figlio Nennillo, uno appassionato al presepe e l’altro no, c’è la degna rappresentazione di una rottura tra il passato e il presente, tra tradizione e disprezzo – più che discontinuità e voglia di progresso – per la tradizione. “Te piace ‘o presepe?” è il mantra che Luca ripete ogni mattina, con forza e insistenza. “No”, gli risponde Nennillo annoiato. E effettivamente a chiederlo ancora oggi, “te piace ‘o presepe?”, chissà se si otterrebbe un altro tipo di risposta da quel no sfasteriato e controvoglia. È che i tempi sono cambiati e il presepe da rappresentazione della natalità è diventato un altro evento qualunque, una boa più che un pilastro: ci si gira attorno, perché si deve, e poi si ritorna al punto di partenza.
La via dei pastori viene riempita di rappresentazioni piccole e insulse, di plastica e riprodotte serialmente; e di Benito, del vinaio o di Zi’ Vicenzo e Zi’ Pascale nessuno si ricorda più. Meglio un Renzi gigante o un Benitez che sorride e indossa giacca e cravatta come ai ritiri della squadra: la Via dei Presepi è diventata un Museo diMadame Tussauds a cielo aperto, solo che anziché della cera i personaggi sono fatti di terracotta.