“Per amore del mio popolo”: la lettera di don Peppe Diana contro la camorra dei Casalesi
Don Peppino Diana è stato assassinato dalla camorra il 19 marzo del 1994. Lo provano processi e condanne e le parole di pentiti che hanno raccontato i fatti; quello che conta, però, è che il suo martirio non è stato riconosciuto solo nelle aule di tribunale ma anche dalla Chiesa. In questi giorni, infatti, ha preso il via la causa di beatificazione del sacerdote sostenuta pure da una forte spinta popolare. Il suo impegno si è sviluppato a Casal di Principe, provincia di Aversa, regno di clan che controllavano il territorio, i traffici illeciti ma anche l’economia ‘legale’; contro questa onnipotenza si schierò don Peppino il parroco della parrocchia di San Nicola a Casal di Principe. Nelle prime fasi del processo per il suo assassinio ci fu un tentativo di depistaggio costruito su false notizie: il prete venne dipinto come un uomo dedito alle donne, agli abusi sessuali, funzionale ai clan anziché loro oppositore. Le indagini smentirono le calunnie – pure diffuse su alcuni giornali – e fecero emergere un quadro di mandanti e esecutori sul cui conto non ci potevano essere dubbi.
La storia di don Peppino è dunque la vicenda di uno di quegli eroi normali che popolano la nostra storia recente in cui a fatica si è fatto largo nella società italiana il senso di una comune appartenenza civile e nazionale fondato non sul sopruso ma sulla legalità. Una storia che si somma e aggiunge a quella di altre figure simili: pensiamo a don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia nel quartiere Brancaccio di Palermo, in Sicilia, nel 1993; a Rosario Livatino, il giovane magistrato ammazzato dalle organizzazioni criminali in provincia di Agrigento nel 1990. Tre nomi associati non per caso: per tutti loro è stata infatti aperta e avviata una causa di beatificazione; segno di un riconoscimento pubblico che la Chiesa oggi vuole dare a questi suoi martiri, uomini da portare ad esempio a tutto il popolo di Dio e alla società nel suo insieme. Lo ha ricordato di recente il vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo, che ha spiegato come in Diana, Puglisi e Livatino “non si riconosce soltanto un coraggio vissuto fino all’eroismo, una sensibilità capace di reagire davanti alle sofferenze dell’umanità oppressa, oppure una visione sapiente della verità, in essi si riconosce una presenza che si affida a Dio, che si consegna a Dio. E’ veramente intenso questo verbo: consegnarsi a Dio”.
Ma certo a rendere a possibile la beatificazione di don Peppino è stato anche, e in modo determinante, l’impulso al cambiamento nella Chiesa promosso da papa Francesco, dalla sua scomunica ai mafiosi pronunciata nel 2014 in Calabria, dalla separazione fra Chiesa e poteri criminali affermata e richiesta da Francesco in ogni occasione. Di più: la criminalità per il pontefice argentino è fenomeno globale che riguarda da vicino il suo Paese come tutta l’America Latina; la mafia – Bergoglio ne è consapevole – è un mostro con molte teste: il traffico di droga, l’oppressione che esercita sulle popolazioni, la sua capacità di influenzare il potere politico sono altrettanti capitoli di una “struttura del peccato” che va sradicata.
In quest’ambito, allora, il cristiano deve testimoniare la propria scelta in favore del Vangelo, scelta non violenta per eccellenza che si manifesta però nella denuncia delle organizzazioni criminali, dei loro disvalori, della corruzione che diffondono nel corpo sociale. I poveri, ha detto il papa nella periferia romana di Tor Bella Monaca, sono le prime vittime della mafia, i primi a soffrire del morbo criminale. Affermazioni compiute non per caso in una grande e storica periferia della Capitale a pochi mesi dall’emergere di quel fenomeno non ancora del tutto scoperchiato dalle indagini della magistratura definito mafia Capitale.
E allora in questi anni di assenza di speranza la Chiesa di Francesco, a fatica, con molte resistenze interne, prova a rilanciare un discorso profetico e cristiano di cambiamento sociale e prende ad esempio uomini e personalità che non hanno ceduto di fronte alle minacce e anzi, per il loro impegno, sono stati uccisi “in odium fidei”; perché il mafioso odia il Vangelo quando diventa strumento di liberazione. In quest’ottica, ancora, va letto pure il viaggio del Papa a Napoli dove, fra le tappe della visita, c’è Scampìa, quartiere simbolo di quella Gomorra che sembra un destino ineluttabile, a quella popolazione Francesco porta un messaggio di emancipazione dall’oppressione criminale. (Francesco Peloso – Articolo21)