Sulla scia della memoria;la Giornata delle Forze Armate

Quest’anno la Giornata delle Forze Armate ha avuto più significato vivo che simbolico.  Essa è arrivata mentre non si sono ancora asciugate le lacrime per l’ennesimo caduto in Afghanistan, e mentre è ancora in piedi la questione dei due marò detenuti in India. Un giorno particolare quindi per le Forze Armate, come ha ricordato nel suo messaggio d’occasione il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale ha scritto che il 4 novembre, che ricorda la nostra vittoria contro le forze austriache nel 1919, deve essere un momento di riflessione e di riscatto per l’Italia e anche per le comunità locali, oggi non minacciate dalla guerra ma dalla crisi occupazionale.

Proprio per ricordare quei momenti lontani (ma a tratti così vicini) della Storia recente, abbiamo intervistato tre dei molti reduci di guerra afragolesi, a cui lasciamo volentieri la parola.

Francesco Goria

“ Sono della classe 1923, dopo le elementari svolte al primo piano del Palazzo comunale con il maestro Luigi De Rosa, mio padre mi fece andare a lavorare in un ‘officina a San Giorgio per imparare un mestiere. A 19 anni, ai primi di gennaio 1943 i carabinieri mi portarono la cartolina di precetto militare, e il 7 gennaio mi trovavo già al distretto militare di Aversa, per raggiungere poi le casermette di Monopoli, dove dopo qualche mese di addestramento fummo imbarcati il 31 marzo 1943 per l’Albania. Durante la navigazione, che avvenne di notte, avevamo paura di essere attaccati da qualche nave nemica, e perciò eravamo scortati da due navi da guerra. Arrivammo a Durazzo, e lì la popolazione ci accoglieva freddamente. Dovevamo guardare attentamente l’area intorno alle montagne di confine, e ricordo che l’8 settembre di quell’anno, quando ci fu l’annuncio dell’armistizio, ci fu una grandissima confusione, e il comando di fatto non c’era più. Io e altri compagni ci nascondemmo presso alcune famiglie albanesi, ma quando i tedeschi annunciarono che le famiglie che davano ospitalità agli italiani sarebbero state tutte trucidate, ci cacciarono. Tentammo di raggiungere Durazzo per ripartire, ma fummo presi e iniziò il lungo viaggio in Germania. Nei boschi albanesi, ero stato esposto a tutte le intemperie, e non si mangiava regolarmente come è facile immaginare; in breve, mi ammalai di pleurite. A Belgrado fui curato da un medico tedesco, espertissimo e gentilissimo, di cui conservo ancora il certificato medico con la sua firma: mi estrasse tutto il liquido pleurico e così guarii, anche se avevo comunque febbri. Appena fui giudicato abile al viaggio, arrivai nella Germania centrale, e fummo messi a lavorare nei campi di concentramento per un anno. Ogni giorno ci davano sempre lo stesso brodo di verdure con una fetta di pane, e ognuno di noi veniva a messo a fare qualcosa secondo le sue conoscenze, io per esempio lavorai di nuovo in officina.                               La Germania si arrese nel maggio 1945, ma non tornammo in Italia: gli americani ci tennero ancora un po’ lì, e si sostituirono ai tedeschi nel farci lavorare nei campi di concentramento, pur se con metodi migliori. Il ritorno fu a scaglioni, e a casa non davo più mie notizie ormai dalla fine del 1943. Tornai in Italia il 1 luglio 1946, dopo le elezioni per la Repubblica,e ricordo che a Roma il treno si fermò poiché era stato messo su un centro d’accoglienza dal Papa di allora, Pio XII Pacelli,e il 2 finalmente tornai a Napoli. Presi il tram e giunsi a piazza Belvedere ad Afragola. Un conoscente mi riconobbe, si assicurò che ero ancora io e mandò ad avvisare mio padre, che lavorava in una panetteria a Santa Maria. Mi ricordo che venne così di corsa, che aveva ancora le mani piene di farina quando lo rividi dopo quasi 4 anni”.

Antonio Botta

“Classe 1926, feci le elementari, e poiché avevo voglia di imparare, andavo a scuola da Afragola a Napoli, spesso accompagnato da mio padre in bicicletta. Il 10 giugno 1940, quando l’Italia dichiarò guerra a Francia e Gran Bretagna, la vita cambiò anche per noi. A Baia c’era uno stabilimento per la produzione di siluri, e io fui mandato là. Sulla banchina c’erano i lanciasiluri, e con noi lavoravano i tedeschi. Ricordo che su un cartello all’ingresso dello stabilimento c’era scritto “Qui non si parla né di politica né di strategia, qui si lavora”. Al mattino prendevo un tram alle 4e23, e scendevo in piazza Carlo III, proseguivo fino a Montesanto e da qui alla Cumana per Pozzuoli. Avevo 14 anni, e la mia matricola era 6017. la sera rientravo sempre col tram, e i frequenti bombardamenti interrompevano spesso le linee. Da mangiare avevamo per primo legumi, e per secondo le crusche dei legumi, e di sera si viveva nella costante paura dei bombardamenti. Ricordo che più d’una notte la passammo giù nelle grotte. Mio padre era un impiegato dell’ Enel, che allora si chiamava “Società Meridionale dell’elettricità”, e nei giorni di festa dallo stabilimento, mi portava con lui a piedi o su uno “sciaraballo” (un carretto) a riparare i guasti; la società, in tali occasioni, ci dava anche qualcosa in natura, come latte condensato, mezzo litro di olio, ecc. .                         Una volta, a Napoli, nella zona di “Carriera Grande” (via posta tra Piazza Garibaldi e Via Foria, ndr) un italiano gettò qualcosa dalla finestra contro alcuni soldati tedeschi che passavano di là. Essi risposero catturando alcuni italiani, molti giovani; io mi rifugiai in un rifugio vicino piazza Ottocalli, e ricordo che ero stretto da tutte le parti, e tenevo in mano ‘sta bottiglia tenacemente per portarla a casa. Un’altra cosa che ricordo fu un’esplosione incredibile un giorno al porto di Napoli: io venivo da via Marina e ci fu una deflagrazione di una nave forse diretta alle colonie, che esplose e l’onda d’urto ci gettò tutti a terra”.

Nicola Cerbone, ex presidente dell’Associazione Mutilati e Invalidi di Afragola

“ Sono nato in via Pigna ad Afragola nel gennaio 1920, e il mese prossimo compirò 94 anni. Fui il quarto di 13 figli, e portò il nome di un fratello che morì prima che nascessi e che non ho mai conosciuto, e di cui mia madre ha conservato questa ciocca di capelli (dice mentre ci mostra una ciocca rossa di capelli tenuta da un nodo, conservata in una minuscola busta per lettera ingiallita dal tempo). Dopo le elementari frequentate al primo piano del palazzo del Municipio, e le scuole di avviamento professionale passate nell’edificio a lato dello stesso, imparai a fare l’elettricista presso un’officina. A 20 anni giusti mi arrivò la cartolina, e dovetti andare in Marina perché ero un operaio specializzato, e non volevo andarci, perché nell’esercito ci si stava 18 mesi, mentre in Marina ben 28. Partii e raggiunsi Taranto per la vestizione, e per poi imbarcarmi sulla Conte di Cavour. Qui restai poco perchè mi ammalai per le pessime condizioni di lavoro, e dovetti sbarcare a terra. La seconda nave su cui fui imbarcato fu la Giulio Cesare, e su questa mi preparai per lo sbarco a Malta dopo la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940. Ma invece che a Malta ci inviarono a Tolone, in Francia, dove i francesi affondarono le proprie navi per non farsele requisire da noi e dai tedeschi. Tornai a Taranto, per lavorare sulle navi che partivano per la Sicilia e la Libia, e qui ci raggiunse la notizia dell’armistizio dell’8 settembre 1943. tutti fummo felici, e solo dopo ci accorgemmo che i tedeschi che fino al 7 erano ormeggiati al Mar Grande erano scomparsi. Il giorno dopo, arrivò l’ordine di Badoglio di ammainare le bandiere italiane sulle navi, issare quelle francesi e con quelle dirigerci a Malta, sede operativa degli Alleati. Ricordo come se fosse ora che un ammiraglio, di nome Piscicella, quando lo venne a sapere, ordinò di mandargli una navetta per farsi portare a terra e affidò tutto al comandante in seconda, per protesta contro la decisione. E noi facemmo impigliare le reti galleggianti nel Mar Grande nelle eliche,così da rendere impossibile il movimento alla corazzata. I tedeschi, quando se ne andarono, avevano piazzato mine magnetiche sul fondo del Golfo di Taranto, e quando ci passarono sopra le navi alleate, esplosero tutte insieme. Ricordo ancora i corpi dei morti, che galleggiavano sul Mar Grande come i pomodori sull’acqua. La capitale era diventata Brindisi, perché il re stava lì, e Badoglio autorizzò i militarizzati a tornare a casa per dare una mano alle famiglie e a coltivare le terre. Così tornai a casa, da cui mancavo da 4 anni, all’inizio del 1944. Non davo mie notizie ai miei da quasi due anni”.

In memoriam!

Gli autori

Domenico Corcione

Mariano Antonio Di Maso

Chiara Alessandra Fornelli

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Gennaro Napoletano - Direttore Editoriale di LaFragolaNapoli.it