.Storia di Napoli
La città di Napoli, ricca di storia e di tradizione, domina l’omonimo golfo, ed è circondata da luoghi meravigliosi quali il Vesuvio, la penisola sorrentina, le isole di Capri, Ischia e Procida e i Campi Flegrei. Posta al centro del Mediterraneo, ha sempre svolto un ruolo fondamentale di collegamento tra culture diverse, ed ha visto nei secoli il succedersi di fasi storiche diverse e che hanno lasciato il segno sia nella architettura della città che nelle tradizioni e nell’indole del popolo napoletano. Capoluogo della Regione Campania e “capitale” del Mezzogiorno d’Italia, Napoli oggi copre una superficie di 117 Km quadrati, con una popolazione, nella sola città, di oltre un milione di abitanti.
| Le antichissime origini di Napoli affondano nella leggenda, o meglio, in una serie di leggende. Al centro di tutte, c’è la sirena Partenope, che, affranta per l’astuzia di Ulisse sfuggito al potere del canto delle sirene, si sarebbe |
Nel 470 a.C., i greci Cumani decisero di fondare una vera e propria città, scegliendo una zona più ad oriente della vecchia Partenope, zona che corrisponde all’attuale centro storico; il nome prescelto fu quello di Neapolis (“città nuova”), per distinguerla dal precedente nucleo urbano (Palepolis, “città vecchia”). Probabilmente, in questa fase, la città era una repubblica aristocratica retta da due arconti e da un consiglio di nobili. Urbanisticamente la città, come nella tradizione delle città greche, era caratterizzata dalla presenza di cardi e decumani, ed era ricca di edifici di culto e di pubblica utilità: templi, curia, teatro, ippodromo; divenne una importante colonia della Magna Grecia, insieme a Taranto e Cuma, e dalle tradizioni, dalla cultura, dalla mentalità, dall’arte sviluppatesi in questo periodo attinsero i romani nella successiva fase della vita della città. Clicca qui per un tour tra le vestigia della Napoli greco-romana. |
| Nei secoli di governo ducale, Napoli si trovò spesso contrapposta ai Longobardi e ai Saraceni, e per questo ricorse a volte al supporto di altre popolazioni, chiamate in forma mercenaria ad aiutare le difese napoletane. Fu il caso dei Normanni, a cui fu concesso il feudo di Aversa in cambio della resistenza alle mire espansionistiche di Benevento. Ma questi, sotto la dinastia degli Altavilla, ben presto non seppero più accontentarsi del loro |
| Nel 1266, chiamato in Italia dal papa, Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, sconfisse Manfredi a Benevento e assunse la corona del regno del Sud. Per decisione di Carlo, la città divenne capitale del regno (nonostante le forti |
| Qualche anno prima di morire, Giovanna Durazzo, sentendosi in pericolo, chiese aiuto ad Alfonso d’Aragona, re di Sicilia, e l’adottò, legittimandone |
| Si attribuisce questa definizione ai due secoli di dominazione colonialista compresi tra il 1503 e il 1707: la corona di Madrid esercitò il suo potere su Napoli e sul regno con avidità e incapacità; uno stuolo di viceré si successe alla |
Gli anni successivi al 1707 costituirono un periodo di transizione, caratterizzato da un vicereame austriaco che non lasciò grandi segni sulla storia cittadina. Nel 1734, sul trono di Napoli salì Carlo di Borbone, erede designato della dinastia spagnola, che -a dispetto della sua discendenza- da subito improntò il suo regno ad una maggiore autonomia rispetto ai due secoli precedenti. Il sovrano, al trono come Carlo VII, attuò una serie di riforme nei settori dell’amministrazione, del fisco, del commercio e in quello militare, che costituirono un nuovo impulso per lo sviluppo nei decenni successivi di attività che ancora oggi caratterizzano il tessuto economico e produttivo di Napoli: dalle attività artigianali (l’arte presepiale, ma anche le lavorazioni del corallo, delle ceramiche e porcellane, dei metalli preziosi, del legno) a quelle industriali (i cantieri navali di Castellammare, la manifattura di S. Leucio), a quelle commerciali (il porto di Napoli). Forte fu inoltre il suo impegno per il contenimento del potere temporale del clero e per l’abbattimento dei privilegi feudali ancora esistenti all’epoca. Il regno di Carlo I ha lasciato importanti segni anche nell’architettura e urbanistica cittadina (nel 1737 fu inaugurato ilTeatro San Carlo; nel 1738 si avviarono i lavori per l’edificazione della Reggia di Capodimonte e della Reggia di Portici; nel 1751 fu affidata a Ferdinando Fuga l’edificazione del Real Albergo dei Poveri; l’anno successivo Luigi Vanvitelli iniziò la realizzazione della Reggia di Caserta, sul modello di Versailles; nel 1757 lo stesso Vanvitelli progettò il Foro Carolino, l’attuale Piazza Dante) e nella cultura dell’epoca (il San Carlo divenne il tempio della musica italiana ed europea, quarant’anni prima della nascita della Scala di Milano, e in questi anni raggiunse il massimo splendore la scuola musicale napoletana; gli scavi di Ercolano e Pompei divennero parchi archeologici tutelati, e per il loro studio si investirono grandi risorse; si fondò la fabbrica delle porcellane di Capodimonte; giunse a Napoli la collezione Farnese, oggi vanto delMuseo Archeologico). La corona di Carlo vacillò nel 1740, quando -a seguito della guerra tra Spagna e Austria- il Regno di Napoli sembrò dover passare sotto un’altra dominazione; il sovrano si oppose però a tale decisione, e difese con l’esercito l’indipendenza del Mezzogiorno d’Italia dalla corona austriaca. sostenuta dagli alleati inglesi e dal sovrano spagnolo, sbarca in Calabria, e risale -sotto la bandiera della Santa Fede- fino a Napoli, ottenendo il favore della nobiltà e della popolazione agricola. Le truppe francesi nel giugno 1799 abbandonano la città, e i cosiddetti “sanfedisti”, una volta presi i rivoluzionari arroccati nel Castel S.Elmo, si dedicano ad una dura repressione, passando per la forca in piazza Mercato tutti i repubblicani. Nell’occasione, si consuma anche la vendetta personale del celebre ammiraglio inglese Nelson, che fa impiccare sulla sua nave il valoroso ammiraglio napoletano Francesco Caracciolo, cui sarà poi dedicato illungomare di Napoli. Ferdinando torna così sul trono del Regno di Napoli, ma non vi rimarrà ancora a lungo: l’Europa è ormai segnata dall’egemonia napoleonica, e ben presto l’imperatore dei francesi decide di far dono del Sud Italia al fratello Giuseppe. Nel 1805, le truppe francesi entrano di nuovo in città, e Ferdinando è di nuovo costretto all’esilio a Palermo. Nonostante la storiografia sia sempre stata molto critica nei confronti della dinastia borbonica, il Settecento borbonico fu per Napoli un periodo di sviluppo e prestigio internazionale. Nel Regno operarono e fiorirono artisti di chiara fama, quali i musicisti Scarlatti, Pergolesi, Cimarosa e Paisiello, i pittori Solimena, Vaccaro, De Mura, lo scultore Sanmartino (autore del famoso Cristo Velato), i già citati architetti Vanvitelli e Fuga. La città raggiunse i 337.000 abitanti nel 1765, seconda in Europa solo a Parigi. |
Giuseppe Bonaparte regnò a Napoli per appena tre anni (1805-1808), nel corso dei quali avviò in città alcuni rilevanti lavori pubblici (tra cui la strada che attraversa Posillipo) e realizzò una riforma amministrativa, ampliando i confini di Napoli -suddivisa in dodici quartieri-, istituendo la figura del sindaco, supportato da un organo elettivo, e introducendo il catasto urbano. In questo periodo furono anche istituiti l’Orto Botanico, a via Foria, e il Conservatorio di Musica, che trovò sede nel convento di S.Pietro a Majella, e che tanto avrebbe contribuito in seguito alla fioritura della musica napoletana. , Napoleone affidò il regno a Gioacchino Murat, suo genero e fedele generale del suo esercito; il carattere del nuovo sovrano lo fece benvolere dal popolo napoletano, e le sue abilità militari gli permisero di costituire un esercito che ottenne importanti successi, sia in casa (conquistando l’isola di Capri, già in mano agli inglesi, e sconfiggendo una flotta anglo-spagnola nel golfo di Napoli) che nella campagna di Russia del 1812. Per la città, Murat compì altri lavori pubblici, come l’apertura del Corso Napoleone, che collegava via Toledo con Capodimonte e preludeva a uno sviluppo della città verso nord. Il Congresso di Vienna e la Restaurazione imposero l’allontanamento di Murat da Napoli, nonostante i suoi numerosi tentativi di rimanere sul trono. Confinato in Corsica, il generale volle attuare nell’ottobre 1815 un ultimo disperato piano per la riconquista del Regno, sbarcando con una piccola guarnigione in Calabria; catturato dall’esercito borbonico, fu condannato alla fucilazione. |
Con il Congresso di Vienna, fu decretato il ritorno a Napoli di Ferdinando di Borbone, che stavolta salì al trono con il nome di Ferdinando I, dopo aver unificato il Regno di Napoli e quello di Sicilia nel “Regno delle Due Sicilie”. Tra i primi atti del nuovo governo, Ferdinando introdusse nuovi innovativi codici g . Insieme a un grosso sforzo di riorganizzazione dell’esercito, il nuovo re dette impulso al progresso in diversi settori, permettendo a Napoli di divenire un centro d’eccellenza, e di raggiungere tanti primati: nel 1837 fu la prima città d’Italia ad avere l’illuminazione a gas; nel 1839 fu inaugurata la Napoli-Portici, prima ferrovia italiana; nel 1841 nacque l’Osservatorio Vesuviano, primo centro vulcanologico del mondo. Furono inaugurate linee telegrafiche, nuove strade, ponti, strutture sanitarie, scuole e istituti professionali, e la popolazione raggiunse il mezzo milione di abitanti, indiscutibilmente la città più grande d’Italia. La cultura dell’epoca vide la nascita della grande tradizione della canzone napoletana, le prime espressioni del teatro dialettale (con Eduardo Scarpetta) e la fioritura, nelle arti figurative, della Scuola di Posillipo, che annoverò tra i suoi esponenti Domenico Morelli, F.P. Michetti, i fratelli Palizzi, Gioacchino Toma. Sul piano politico, il 1848 fu l’anno delle sommosse liberali, e anche a Napoli, sulla scia delle riforme ottenute in Toscana e Piemonte, vi furono sollevazioni che si conclusero con la promulgazione della Costituzione e l’istituzione del Parlamento. Gli anni successivi videro il Regno di Napoli battersi al fianco del Papa, impegnato nelle lotte contro i liberali e costretto all’esilio a Gaeta; l’esercito inviato da Ferdinando ottenne importanti vittorie contro i rivoluzionari romani, a Terracina e Palestrina. Ferdinando II morì nel 1859, alle soglie del fatidico anno dell’Unità d’Italia. |
| d’Italia |
Alla morte di Ferdinando, gli succede il giovane Francesco II, che sarà l’ultimo Re delle Due Sicilie. E’ il 1860, e lo sbarco a Marsala dei Mille guidati da Garibaldi è agevolato dall’ammutinamento della marina borbonica, e dalla benevolenza di alcuni generali di stanza in Sicilia; mentre risalgono lo stivale, i garibaldini acquisiscono il consenso dei liberali, della diplomazia inglese e piemontese, della borghesia e perfino della camorra. Francesco II, per non tingere di sangue la capitale, porta il suo esercito a nord, al di là del fiume Volturno, e attende i garibaldini, che affronterà nella battaglia di Caiazzo. Stretti tra l’esercito di Garibaldi a sud e quello piemontese, che nel frattempo penetra da nord sotto il comando di Vittorio Emanuele II, i reggimenti napoletani si arroccano nella fortezza di Gaeta, dove resistono a lungo, ma senza possibilità di ribaltare gli esiti della guerra. Così, con lo storico incontro di Teano, Vittorio Emanuele si vede consegnare tutto il Mezzogiorno d’Italia e il 7 settembre Garibaldi entra a Napoli e, dal balcone di Palazzo Doria d’Angri, annuncia al popolo l’annessione al nascente Stato italiano, sotto la corona sabauda; il plebiscito del 21 ottobre confermerà quest’atto. I successivi sono anni di cambiamento e assestamento, soprattutto per la popolazione, alle prese con una nuova realtà politica e con un governo lontano e indifferente; nelle campagne si diffonde il fenomeno conosciuto come “brigantaggio”, e la repressione è dura, con l’invio di un esercito di 120.000 uomini. Si ringrazia il sito:www.danpiz.net di Daniele Pizzo |
La Napoli OnLine di Daniele Pizzo
Quando la vera napoletanietà divenda passione
Se mi farete compagnia vi immergerete, assieme a me, nei colori, odori, sapori e tradizioni della mia Napoli. In questo post di tantissime pagine, infatti, collochero’ e potete collocare, alla rinfusa, tutto quello che riguarda Napoli e i napoletani, con la speranza che chi non ci vive o chi vi è lontano possa comprendere i costumi, le bellezze, le contraddizioni, l’umorismo, l’allegria, la solarita’ di questa citta’ e di questo popolo e perchè no anche la sua strafottenza .
Si ringrazia il sito pulcinella291.forumfree.it


‘Napule è ’nu paese curioso:’ ‘e’ ‘nu teatro antico, sempre apierto. Ce nasce gente ca senza cuncierto scenne p’ ‘e strate e sape recita’. Nunn’è c’ ‘o ffanno apposta; ma pe’lloro ‘o panurama è ‘na scenografia, ‘o popolo e’ ‘na bella cumpagnia, l’elettricista e’ Dio ch’ ‘e fa campa’..
Va p”o vico na voce, na stesa, p”e mmaéste ca vònno fá spesa… Na carretta, ch’è chiena ‘e campagna, ll’accumpagna pe’ tutt”a cittá. Coro: Ll’accumpagna pe’ tutt”a cittá. Mo na sciassa cu ‘o rrusso e cu ‘o ggiallo, s’appresenta cu ‘a museca e ‘o ballo: pazzariéllo è chist’ommo ch’avanza… Vótta e scanza, cchiù folla se fa… Puó’ dí ch”e strade ‘e Napule cheste só’: nu palcoscenico, puó’ dí ch”a gente ‘e Napule chesto vò’: nu palcoscenico… Só’ scene comiche, só’ scene tragiche, mentre se recita siente ‘e cantá: “Napule, Napule, Napule, Na’… Acqua fresca…chi s”a véve!” La Napoli colorata e dei vicoli è un gran palcoscenico. Versi che somigliano ad un quadro…’na carretta ch’è chiena ‘ e campagna. E’ il massimo della sintesi poetica. A questo si aggiunga una interpretazione stupenda e Palcoscenico diventa un classico della musica napoletana
Napoli e la musica La musica è da sempre patrimonio culturale della città di Napoli è parte integrante del costume di vita del popolo napoletano ed il napoletano fin dai tempi piu’ remoti fu universalmente accettato come lingua, specie nel canto.Il canto era talmente radicato nello spirito napoletano che il popolo usava comunicare in molte occasioni proprio con questo mezzo espressivo e chi viene ancora oggi in visita alla nostra città potrà ancora sentire, nei quartieri più popolari, i versi melodiosi che i venditori ambulanti lanciano a squarciagola per le strade per decantare le merci in vendita.Nel ‘700 e nell’800 le orchestrine dei musicanti erano presenti in ogni quartiere ove, sia di giorno che di notte, facevano musica popolare con strumenti tipici della regione come il calascione, la chitarra battente, la tammorra, e strumenti ancora più popolari come putipù, triccaballacche, e scetavajasse che accompagnavano una o più voci. Durante il 18° secolo il Regno di Napoli esportò nelle maggiori capitali europee un così gran numero di compositori ed esecutori della sua musica, e di così grande livello artistico, da far considerare lo stile napoletano come il metro del gusto musicale internazionale (Tyler, 1989). Nel ‘700 il napoletano, allora come oggi, era nelle musiche l’unico dialetto universalmente accettato come lingua, ed i turisti stranieri rimanevano colpiti, oltre che dalle bellezze della città, dal carattere dei napoletani e dal fatto che i balli, il canto e la danza erano un costume di vita di questo popolo. Charles Burney (1771) riporta nel suo diario, alla data del 23 ottobre 1770, che nelle strade di Napoli, di notte, vi erano cantanti che, accompagnati da calascione, mandolino e violino, riempivano di suoni e canti le strade, rendendo difficoltoso il riposo! E’ quindi chiaro che in una città ove la musica era da sempre un costume di vita, si sia parallelamente sviluppata l’arte di costruire gli strumenti per far musica: mandolini, mandole, liuti, calascioni, lire, violini, chitarre, pianoforti, etc. Anche se il periodo aureo della liuteria napoletana è stato il ‘700, questa antica tradizione si è mantenuta nei secoli fino ai nostri giorni. Gli strumenti napoletani, antichi e moderni, sono molto apprezzati nel mondo e ciò fa onore alla nostra città. GLI STRUMENTI MUSICALI NAPOLETANI Le castagnelle.sono la versione povera e popolaresca delle più nobili nacchere spagnole e consistono in due piccole, cave semisfere di legno intagliato ad hoc, ma un tempo anche di osso ugualmente lavorato,esse sono legate a coppia con una fettuccia che è inforcata dal dito medio vengono azionate schiacciandole ritmicamente contro il palmo della mano, per modo che urtandosi fra di loro, producano un suono secco e schioppettante, atto ad accompagnare, quasi sempre, i passi delle danze popolari quali tarantella, saltarello ed altre consimili.il termine castagnelle o castagnette è dallo spagnolo castaňetas (che in terra iberica indicano le nacchere) quasi castagna per la forma vagamente somigliante delle castagnelle come delle nacchere al frutto del castagno. La tammorra è propriamente l’ampio tamburo corredato di vibranti piattelli metallici posti in delle fessure ricavate sul cerchio ligneo contentivo della pelle di animale (per solito ovino) che costituisce la superficie che viene colpita, perr cavarne il suono, ritmicamente con le dita o il palmo di una mano, mentre l’altra agita lo strumento per far vibrare di più i piattelli.Versione ridotta e piu’ manegevole della tammora è il tammurriello. Lo scetavajasse tipicissimo strumento musicale popolare napoletano, che per il modo con cui è sonato fa pensare ad una sorta di violino, sebbene non abbia corde o cassa armonica di sorta; esso è essenzialmente formato da due congrue aste lignee di cui una fornita di ampi denti ricavati per incisione lungo tutta la faccia superiore dell’asta corredata altresì di numerosi piattelli metallici infissi con chiodini lungo le facce laterali della medesima asta; l’altra asta usata dal sonatore a mo’ di archetto viene fatta scorrere contro i denti della prima asta (tenuta poggiata ,quasi a mo’ di violino, contro la clavicola) per ottenerne uno stridente suono, facendo altresì vibrare ritmicamente i piattelli nel tipico onomatopeico nfrunfrù. Il triccabballacche è tipico strumento musicale popolare usato in quasi tutta l’Italia centro –meridionale e non solo dai piccoli concertini rionali popolari, ma anche da più vaste formazioni addirittura di tipo bandistico; esso è costituito da un’ asta lignea fissa alla cui sommità insiste una testa a forma di parallelepipedo, contro cui vengono ritimicamente spinte analoghe teste di due aste mobili incerneriate alla base di quella fissa; le teste per aumentare il clangore dello strumento sono provviste dei soliti piattelli metallici. La caccavella conosciuta anche con il nome di putipú. Tale strumento in origine era formato essenzialmente da una pentola di coccio, pentola non eccessivamente alta, ma di ampia imboccatura sulla quale era distesa una pelle d’ovino, pelle che debordando dalla bocca era fermata con stretti giri di spago, per modo che si opportunamente tendesse; al centro di detta pelle in un piccolo foro è infissa verticalmente un’assicella cilindrica (originariamente una sottile canna) che soffregata dall’alto in basso e viceversa con una pezzuola o una spugnetta bagnate permette di trasmettere le vibrazioni alla pelle che, è tesa sulla pentolina che fa da cassa di risonanza per modo che se ne ottenga il caratteristico suono ( put-pù,put-pù), vagamente somigliante a quello prodotto dal contrabbasso, suono che per via onomatopeica conduce al putipù che, come ò detto, è l’altro nome con cui è conosciuta la caccavella . Altri strumenti da ricordare sono:-mandolino strumento notissimo il cui nome è il diminutivo di mandòla che è dal tardo latino pandura forgiata sull’omologo greco pandoýra generico strumento a corde simile al liuto. – chitarra altro strumento notissimo, il cui nome è dal greco kithàra, attraverso il latino cìthara; – ciaramella sorta di piffero, strumento a fiato ad ancia piccola e stretta usato come voce solista; il suo nome è probabilmente dal greco kèras che è il corno, pur esso strumento a fiato di tal che più acconciamente in luogo di ciaramella si dovrebbe dire ceramella, sempre che non si voglia seguire per ciaramella il pur percorribile latino: calamella sulla scorta di un calamus che è canna, zufolo,flauto; – urganetto che è l’organetto ( versione povera del bandeon o bandoneon argentino, sorta di piccolissima fisarmonica a bottoni) il cui nome è dal greco: organon generico strumento anche musicale.
La Lingua Napoletana è stata relegata a definirsi Dialetto a causa della contrapposizione, intercorsa fra il Re (di Napoli e di Sicilia), Federico II di Svevia, ed il Papa dell’epoca, Innocenzo IV. nel 1245. La vicenda storica narra che a seguito del rifiuto di Re Federico II, divenuto nel 1212 anche Imperatore di Germania, al Papa Innocenzo IV di non voler procedere ad un’ulteriore Crociata, dopo avervi partecipato da protagonista nella Sesta, fu da quest’ultimo scomunicato e nei cedolari legislativi, nelle bolle Statali, nei libri che s’incominciano a diffondere, intimò ai sudditi di tutta la penisola italiana e dell’allora cristianità di non utilizzare il linguaggio usato dallo scomunicato Sovrano, il Napoletano, e di servirsi bensì di quello fiorentino, il cosiddetto Latino -Volgare. Quest’avvenimento non ha precluso al Napoletano, la lingua parlata imperante fino al 1860 in tutto il meridione nel regno appartenuto ai Borboni, di essere una delle lingue più conosciute al mondo, grazie alla diffusione delle sue meravigliose canzoni, che varcando oceani, superando interi continenti vengono cantate con parole solamente in napoletano e senza bisogno di traduzione. Il Napoletano è una lingua, che trae origini dal latino, ma prima ancora dall’osco-sabellico, dal greco, dal linguaggio dei fenici, dal bizantino, dal francese, dallo spagnolo, negli ultimi tempi si è arricchito di vocaboli dall’inglese e perfino dall’americano, durante la seconda guerra mondiale e la conseguente occupazione di Napoli. Una caratteristica del napoletano parlato è che spesso le vocali, se non toniche , (quando cioè non cade l’accento) e quelle utilizzate in fine di parola, non vengono pronunciate distintamente, anzi acquistano un suono indistinto, che viene definito dall’alfabeto fonico internazionale Schwa (temine antico ebraico per dire insignificante) e viene trascritto col simbolo ə (una e capovolta) per indicare che è una vocale semimuta alla francese.
UN PO’ DI LEZIONE DI NAPOLETANO Il Napoletano (‘o nnapulitano) è la lingua romanza parlata nella città di Napoli e, nelle sue variazioni e contaminazioni, in Campania e in certe zone delle vicine regioni di Abruzzo, Basilicata, Calabria, basso Lazio, Marche, Molise e Puglia. È una lingua bella e dinamica e vogliamo insegnartela!.Se sei interessato nella stessa sezione di questo sito “napoli è” troverai un vocabolario napoletano ben aggiornato. L’Italia Meridionale è conosciuta per la sua cucina, la sua musica, il suo romanticismo e la passione, in generale, che tutte queste cose riescono a generare. Purtroppo, è anche conosciuta, però, per la piaga della criminalità da cui ogni buon meridionale vuole a tutti i costi divincolarsi per dare piena libertà alle sue passioni. Sai: anche la sola ragione del cibo è buona per imparare questa lingua! Imparare il Napoletano può risultare difficile, dato che non esiste una grammatica standard e non c’è nessuna autorità che ne stabilisca il vocabolario e la relativa grammatica. Ci sono solo delle norme generalmente accettate e noi, in questa sezione, tratteremo, soprattutto, di quelle, avendo cura di indicarti eventuali varianti quando esse siano importanti o interessanti ecco come si dice . le parti del corpo=’e parte do cuorpo ‘a capa -testa ‘o fetillo -l’ano (slang) ‘o vraccio braccio ‘a coscia* gamba ‘e rine -schiena ‘o stommëco -stomaco ‘a mana mano ‘a vocca bocca ‘o dènte (pl. ‘e diente) dente l’uocchio occhio ‘a recchia orecchio ‘o dito (rìt) dita ‘o pède (pl. ‘e piede) piede ‘o naso naso ‘o dënucchio ginocchio ‘o cuollo collo ‘o guvëto gomito ‘o mascariello guancia ‘a spalla spalla ‘o ‘mbelliculo/ ‘o velliculo ombelico ‘a nasèrchia narice ‘o pietto petto ‘a coscia coscia ‘o capetiello capezzolo ‘a cascetta costato ‘o bavero il mento ‘o core il cuore ‘a huallera lo scroto ‘o fegheto il fegato ‘e rine le reni ‘o rëtone l’alluce ‘o retill il mignolo e’custat le costole e’stintin l’intestino o’pesce il pene ‘a pucchiàcca la vagina e’capill i capelli In napoletano si usa “coscia” anche per “gamba”, del resto in italiano, all’inverso, si usa gamba anche per significare “coscia”. Ricavato da “http://it.wikibooks.org/wiki/Corso_di_napoletano/Parti_del_corpo” I SALUTI buongiorno bonní, bongiorno ciao ciáo, ué buonasera bonaséra buonanotte bonanotte arrivederci, ci vediamo statte bbuono Questa è solamente la forma grammaticale dei saluti napoletani. Perché, per quanto riguarda la civiltà, i Napoletani, in un saluto sono molto calorosi, quindi si avrà un saluto lunghissimo, così, ad esempio: “Ué Genná, comme staje, ‘a quantu tiempo ca nun ce sentimmo, tutto ‘a posto, â casa tutt’a posto, mugliereta, mammeta, figlieta? Jammece ‘a piglià nu cafè, però pav’io, nun mettere ‘a mana ô portafoglio! Mamma e comme te sî fatto bello, ecc….” Il Saluto potrebbe durare ancora parecchio, essendo i Napoletani un popolo molto cordiale. IL TEMPOè soleggiato c’e stà o sole’ fa molto caldo fa nu caver’ e pazz’ pioviggina schizzichea sta piovendo sta chiuvenn’ sta piovendo molto sta facenn nu cuofen’ d’acqua fa freddo fa friddo fa molto freddo s’ puzz’ e fridd LE STANZE DELLA CASA a’ stanza ó lietto = camera da letto a’ stanza ó baño/ o’ banho = camera da bagno a’ stanza ó pranzo = camera da pranzo a’ cucina = la cucina o’ ripostijo/ o’ stanzino = lo stanzino (ripostiglio) a’ stanzetta/ a’ camera re criature = camera dei bambini l’andron do palazzo/ = il cortile del palazzo a’ pixina = la piscina o’ ciardino = il giardino l’asteco = l’attico o’ terrazzo = il terrazzo o’ balcon / o’ barcon = il balcone a’ cantina / = la cantina o’ puzzo / = il pozzo e’ scale / = le scale a’ fenèsta / = la finestra a’ fenèstella / = la finestrella o’ salon / = sala da pranzo o’ corridojo / = il corridoio Che tiempo fa? è soleggiato- ce sta ‘o sol fa molto caldo- fa nu cavero ê pazze pioviggina -schezzechïa sta piovendo sta chiuvenno sta piovendo molto -sta facenno nu cuofeno d’aqqua/se rapute ‘o ciel ( o patapate e l’acqua) fa freddo -fa friddo fa molto freddo -fa assaje friddo I saluti buongiorno- bonní, bòna jurnàta ciao -ciá, hué buonasera -bonaséra buonanotte bonanotte arrivederci,- ci vediamo statte bbuono/ ce verrimmo
Video: IL Dialetto Napoletano
Si ringrazia il sito www.cogitoergosud.it
La Belle Epoque e l’epoca d’oro della canzone napoletana
Tra la fine dell’ottocento e l’inizio della prima guerra mondiale l’Europa vive un periodo straordinario: la Belle Époque (l’epoca bella). È innanzitutto un periodo di pace: finalmente nel vecchio continente non ci sono più guerre fratricide. È poi un periodo di grande splendore per l’arte e la cultura. Ma è soprattutto un periodo di invenzioni straordinarie: si vedono le prime automobili, i primi aerei, i primi treni. E poi l’illuminazione elettrica, la radio, il cinema, l’introduzione dei prodotti chimici e del petrolio. Malattie che da secoli affliggono l’uomo vengono sconfitte. E Pensate stiamo parlando di poco più di cento anni fa!
E a Napoli cosa succede in questo periodo ? Semplicemente, c’è una sorta di magia per cui le note musicali e i versi delle canzoni sembrano scendere giù dal cielo come per incanto, con i musicisti e i poeti che devono solo acchiapparle con le mani per farne canzoni. Tanto che anche la gente comune si scopre compositore di canzoni:Vincenzo Russo lavora in un negozio di guanti, ma scrive i versi di ‘I te vurria vasà. Salvatore Gambardella non ha mai studiato musica, ma compone la melodia di ‘O Marinariello.
Certo già da tempo Napoli era considerata la capitale mondiale del bel canto, tuttavia è in questo periodo che la melodia e la poesia partenopea raggiungono il loro massimo splendore. Nasce la canzone napoletana d’autore, risultato del felice incontro tra gli antichi canti popolari (sorti nei secoli precedenti) e l’esperienza dell’opera buffa. E’ l’epoca d’oro della canzone napoletana, un periodo di circa 40 anni che inizia nel 1880 e finisce poco dopo la fine della grande guerra. Sia ben chiaro: anche dopo saranno scritte splendide canzoni. Ma è questa l’epoca d’oro. Quella delle più belle canzoni napoletane di tutti i tempi; quelle che più classiche non si può! (dal sito http://www.tarantelluccia.it/)




In seguito, pur sotto la sgradita dominazione bizantina, la città dovette respingere forti e rozzi nemici come i Longobardi e i Vandali. Dopo un tentativo di indipendenza nel 615, che portò a un governo autonomo di breve vita, l’imperatore d’oriente nel 661 accolse le istanze dei napoletani, nominando un duca napoletano a capo della città: Basilio. In questo modo, pur dipendendo formalmente da Bisanzio, la città dispose di un governo proprio, che fu dapprima nominato dai bizantini, poi divenne elettivo, e infine ereditario. Ciò durò dal 661 al 1137, periodo di aspre lotte in cui Napoli fu tutto sommato una delle poche isole di civiltà rimaste nella penisola ormai soggiogata dalle popolazioni barbare.
Il sovrano, al trono come Carlo VII, attuò una serie di riforme nei settori dell’amministrazione, del fisco, del commercio e in quello militare, che costituirono un nuovo impulso per lo sviluppo nei decenni successivi di attività che ancora oggi caratterizzano il tessuto economico e produttivo di Napoli: dalle attività artigianali (l’arte presepiale, ma anche le lavorazioni del corallo, delle ceramiche e porcellane, dei metalli preziosi, del legno) a quelle industriali (i cantieri navali di Castellammare, la manifattura di S. Leucio), a quelle commerciali (il porto di Napoli). Forte fu inoltre il suo impegno per il contenimento del potere temporale del clero e per l’abbattimento dei privilegi feudali ancora esistenti all’epoca. Il regno di Carlo I ha lasciato importanti segni anche nell’architettura e urbanistica cittadina (nel 1737 fu inaugurato il
iniziò la realizzazione della
sostenuta dagli alleati inglesi e dal sovrano spagnolo, sbarca in Calabria, e risale -sotto la bandiera della Santa Fede- fino a Napoli, ottenendo il favore della nobiltà e della popolazione agricola. Le truppe francesi nel giugno 1799 abbandonano la città, e i cosiddetti “sanfedisti”, una volta presi i rivoluzionari arroccati nel 
Con il Congresso di Vienna, fu decretato il ritorno a Napoli di Ferdinando di Borbone, che stavolta salì al trono con il nome di Ferdinando I, dopo aver unificato il Regno di Napoli e quello di Sicilia nel “Regno delle Due Sicilie”. Tra i primi atti del nuovo governo, Ferdinando introdusse nuovi innovativi codici g
. Insieme a un grosso sforzo di riorganizzazione dell’esercito, il nuovo re dette impulso al progresso in diversi settori, permettendo a Napoli di divenire un centro d’eccellenza, e di raggiungere tanti primati: nel 1837 fu la prima città d’Italia ad avere l’illuminazione a gas; nel 1839 fu inaugurata la Napoli-Portici, prima ferrovia italiana; nel 1841 nacque l’Osservatorio Vesuviano, primo centro vulcanologico del mondo. Furono inaugurate linee telegrafiche, nuove strade, ponti, strutture sanitarie, scuole e istituti professionali, e la popolazione raggiunse il mezzo milione di abitanti, indiscutibilmente la città più grande d’Italia. La cultura dell’epoca vide la nascita della grande tradizione della canzone napoletana, le prime espressioni del teatro dialettale (con Eduardo Scarpetta) e la fioritura, nelle arti figurative, della Scuola di Posillipo, che annoverò tra i suoi esponenti Domenico Morelli, F.P. Michetti, i fratelli Palizzi, Gioacchino Toma. Sul piano politico, il 1848 fu l’anno delle sommosse liberali, e anche a Napoli, sulla scia delle riforme ottenute in Toscana e Piemonte, vi furono sollevazioni che si conclusero con la promulgazione della Costituzione e l’istituzione del Parlamento. Gli anni successivi videro il Regno di Napoli battersi al fianco del Papa, impegnato nelle lotte contro i liberali e costretto all’esilio a Gaeta; l’esercito inviato da Ferdinando ottenne importanti vittorie contro i rivoluzionari romani, a Terracina e Palestrina. Ferdinando II morì nel 1859, alle soglie del fatidico anno dell’Unità d’Italia.
Alla morte di Ferdinando, gli succede il giovane Francesco II, che sarà l’ultimo Re delle Due Sicilie. E’ il 1860, e lo sbarco a Marsala dei Mille guidati da Garibaldi è agevolato dall’ammutinamento della marina borbonica, e dalla benevolenza di alcuni generali di stanza in Sicilia; mentre risalgono lo stivale, i garibaldini acquisiscono il consenso dei liberali, della diplomazia inglese e piemontese, della borghesia e perfino della camorra. Francesco II, per non tingere di sangue la capitale, porta il suo esercito a nord, al di là del fiume Volturno, e attende i garibaldini, che affronterà nella battaglia di Caiazzo. Stretti tra l’esercito di Garibaldi a sud e quello piemontese, che nel frattempo penetra da nord sotto il comando di Vittorio Emanuele II, i reggimenti napoletani si arroccano nella fortezza di Gaeta, dove resistono a lungo, ma senza possibilità di ribaltare gli esiti della guerra. Così, con lo storico incontro di Teano, Vittorio Emanuele si vede consegnare tutto il Mezzogiorno d’Italia e il 7 settembre Garibaldi entra a Napoli e, dal balcone di 











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